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Il trauma del “rifiuto” e la dissociazione come difesa

Molte personalità post-traumatiche condividono una profonda ferita alla base della loro esistenza: il rifiuto. La sensazione di essere rifiutati da chi dovrebbe amarci determina nella personalità una forte dissociazione: il bambino che si sente rifiutato “nega a se stesso questo trauma” e al fine di sopravvivere introietta i sensi di colpa e la rabbia dei genitori; da grande cercherà
un altro adulto che lo ami e lo faccia sentire accettato, perché inconsciamente la sua ferita, lo muove verso una “compensazione” affettiva, ma paradossalmente il cervello emotivo ha collegato all’amore il rifiuto e con esso il DOVERE di espiare una colpa esistenziale al fine di meritarselo.

Quel bambino è stato forse abusato affettivamente e validato solo quando costituiva una forma di vanto o di piacere per il genitore disfunzionale? Perché oggi, da adulto fa difficoltà ad accettare qualsiasi rifiuto? anche in quei casi in cui un no può essere considerato nella norma? Ad esempio se si viene scartati ad un provino/colloquio o si esce con qualcuno e poi questo qualcuno non vuole rivederci per i motivi più disparati, non necessariamente attribuibili a noi. Il bambino che si è sentito rifiutato ha vissuto probabilmente in una famiglia disfunzionale nella quale ogni minimo dettaglio veniva passato sotto la lente d’ingrandimento del giudizio da parte di un genitore tirannico e/o anaffettivo. Il genitore svalutante e anaffettivo esprimeva costantemente le proprie opinioni negative, sia sugli altri che sui figli e queste opinioni, nel tempo, sono diventate dei “diktat interiori”, “programmazioni interne”, voci in base alle quali valutiamo noi stessi e gli altri.

La famiglia giudicante decide cosa è valido e cosa non, cosa conta e cosa non, se vai bene oppure no e soprattutto trasmette ai figli una dolorosa realtà: “tu non vali il mio tempo e il mio amore”. I giudizi invalidanti possono essere diretti (frasi, offese, paragoni) oppure indirette (sguardi di sdegno, ghigni, sarcasmo, sorrisetti, silenzi… allusioni) e sono orientati soprattutto su
aspetti esteriori/formali della vita dell’individuo: aspetto estetico, lavoro, prestazioni scolastiche, capacità di socializzare; in questa gara costante e straziante per guadagnarsi l’approvazione del genitore tiranno, non esiste spazio per la tolleranza, la compassione, la comprensione e la tenerezza, ma soprattutto non esiste mai una fine, qualcosa che realmente soddisfi il genitore, anzi sadicamente questi chiede A e quando gli viene portato A asserisce che era meglio B, contraddicendosi spesso.

Per questo motivo il figlio ignaro delle patologie o difficoltà caratteriali del genitore, cresce essendo addestrato a dover compiacere l’altro per ottenerne l’approvazione, ma con la paradossale e inconscia sicurezza che tutto quello che farà o dirà non andrà bene, perché di fatto nessuno ha mai creduto in lui e nessuno lo ha mai realmente supportato: “io sono sbagliato”, “io sono un problema per questa famiglia che mi sopporta e mi tollera”. Questo complesso si estende in seguito a tutti gli aspetti della vita: lavorativo, sociale, affettivo… etc. determinando in chi ne soffre una insicurezza e una paura “paralizzante”,
soprattutto quando si tratta di esporsi ad un eventuale nuovo rifiuto e per questo nella personalità post-traumatica scattano difese di freezing, fawning (compiacimento) ed evitamento.

La paura del rifiuto, quindi, può avere radici antiche ed essere associata a un disturbo post-traumatico complesso su base relazionale strutturatosi durante l’infanzia con “l’accumulo” di interazioni fallimentari, abusanti o disfunzionali, rinforzate poi da altre esperienze negative vissute a scuola o con i pari; queste insicurezze infatti, sono “fiutate” da altri individui traumatizzati, che attuano però difese di attacco/fuga più che di freezing e che tendono a cercare il più debole (o almeno percepito come tale) per sfogare la rabbia e non confrontarsi con la loro e l’altrui fragilità. Il disturbo da stress post-traumatico complesso è una risposta difensiva a traumi cronici cumulativi, reiterati nel tempo, spesso di stampo relazionale disfunzionale: abusi emotivi,
fisici o sessuali. La sensazione di abbandono e impotenza subita dal bambino si tramuta in una sorta di
sopravvivenza psichica che io definisco “Senso del Sé Naufragato” (un Sé frammentato e fragile).

Questi traumi interferiscono anche con il naturale processo di sviluppo del SNC sia per quanto riguarda le aree della regolazione emotiva-affettiva che cognitiva. Il trauma della “NON ESISTENZA” è uno dei peggiori; è molto triste da dire e da pensare, ma un genitore che ti “picchia”, “ti sgrida”, “ti odia”, in un certo senso ti sta vedendo, si relaziona a te seppur in modo malato, disfunzionale e negativo. Un genitore per il quale “non esisti” genera una ferita altrettanto profonda e anche poco visibile, deprivando di fatto, il bambino della sua dignità e dei suoi diritti primari e candidandolo “all’invisibilità” percepita.

Ci sono almeno 5 segnali caratteristici del trauma associato al rifiuto:

  1. Rimuginazione negativa/ideazione paranoide: i bambini rifiutati crescono interiorizzando la voce giudicante del genitore tirannico, che si tramuta in età adulta in pensieri negativi riguardo se stessi e all’estensione di questi (proiezione) agli altri (colleghi, amici, partner); si sviluppa una sorta di incredulità rispetto al fatto qualcuno possa interessarsi realmente a noi. Se ci fanno un complimento o qualcuno manifesta interesse per noi, iniziamo subito a chiederci “perché”, se ci sta
    mentendo, cosa in realtà vuole da noi e questo perché durante l’infanzia, non abbiamo ricevuto altro che offese o la sensazione di “essere di peso” e quei pochi complimenti che ci hanno fatto, sono stati mirati a manipolarci per ottenere
    qualcosa. “Non valgo nulla” perché dovrebbe amarmi? Perché questo capo dovrebbe assumermi? (sindrome dell’impostore).
  2. Evitamento: chi ha subito il trauma del rifiuto durante l’infanzia, tenderà in età adulta a sviluppare un attaccamento insicuro evitante. Non permetterà mai realmente a qualcuno di entrare nella sua sfera intima, si proteggerà dall’evenienza di un altro rifiuto, non permettendosi di conoscere sé stesso e l’altro, perché “qualora questo qualcuno scoprisse che non valgo nulla” certamente lo rifiuterebbe e allora si preferisce non entrare in relazione in partenza o mantenere le relazioni sempre ad uno stadio “potenziale” senza mai decollare. Vi è anche la tendenza a stringere relazioni disfunzionali, che ripetono il trauma d’origine (paradossalmente per superarlo, ma con l’esito di rinforzarlo).
  3. Compiacimento degli altri/fawning: al fine di ottenere approvazione e sentirsi accettati i bambini rifiutati saranno gli adulti che in ogni occasione (se non possono evitare un confronto o una realtà), cercheranno di compiacere a tutti i costi gli altri facendo loro favori e/o ponendosi sempre in una posizione di sottile subordinazione e ansia di accontentare per evitare conflitti, abbandoni e ulteriori rifiuti.
  4. Problemi di fiducia: come può chi ha subito un pesante rifiuto dai propri genitori o della propria madre, fidarsi di qualcun altro in età adulta? “Chi ci protegge da chi dovrebbe farlo”?
  5. Sindrome dell’impostore, autosabotaggio e dubbi sulle azioni: Chi ha subito il trauma del rifiuto subisce una grave ferita all’autostima e all’identità; questo si traduce nel “Non sentirsi mai abbastanza per qualcosa o qualcuno”, nel dubitare riguardo le proprie capacità, pensieri o azioni e nel non credere effettivamente di poter avere la forza o la perseveranza di raggiungere un obiettivo senza che qualcuno altro ci dia costanti feedback positivi. Vi è una tendenza a iniziare dei percorsi e interromperli, per paura dell’esito finale visto come abbandono, fine e potenziale giudizio negativo. “per non perdere la partita o farmi dire che gioco male, faccio finta o mi convinco che non mi interessa giocare” …

Dott.ssa Silvia Michelini