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IL TRAUMA RELAZIONALE

Nel DSM IV il trauma psicologico è definito “un’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte, lesioni gravi, comunque una minaccia all’integrità fisica”.

Il trauma, in generale, è un evento (fisico o psicologico improvviso e violento) che irrompe nella psiche della persona e che il soggetto non riesce ad affrontare emotivamente perché le sue risorse (resilienza) sono inferiori o insufficienti a fronteggiare quello stato di emergenza.
Il termine “irrompe” non è scelto a caso; questi eventi improvvisi infatti – possono penetrare lo “scudo di resistenza”, quello che Freud chiamava lo “Schutz Protettivo “e innescare dei meccanismi di difesa finalizzati alla sopravvivenza fisica e psicologica del soggetto, tra cui la dissociazione. Se in seguito a questa esperienza il soggetto non è in grado di rielaborare l’evento ed integrarlo nella propria memoria esistenziale si parla di DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS.
Lo stress post-traumatico (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD), è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche.

Il fenomeno è stato definito e studiato negli Stati Uniti soprattutto a partire dalla guerra del Vietnam e dai suoi effetti sui veterani, riproposti poi in tutte le più recenti esperienze belliche.
Il PTSD può manifestarsi in persone di tutte le età, dai bambini e adolescenti alle persone adulte, e può verificarsi anche nei familiari, nei testimoni, nei soccorritori coinvolti in un evento traumatico.
Il PTSD può derivare anche da una esposizione ripetuta e continua a episodi di violenza e di degrado. (https://www.epicentro.iss.it/stress). Se il soggetto non riesce a superare questa condizione in tempi brevi, si parla di DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS CRONICO O COMPLESSO.
Che accade invece se affrontiamo tanti “micro-eventi altamente stressogeni” in modo continuativo e reiterato nel tempo?
Si parla allora di TRAUMA CUMULATIVO. La traumatizzazione cronica ha i sintomi più pervasivi e invalidanti, legati all’essere stati esposti a molti eventi traumatici nell’infanzia o nell’arco della vita adulta.

Questo tipo di esperienze traumatiche, che possono dare origine al Disturbo da Trauma Cumulativo, riguarda prevalentemente traumi interpersonali come l’abuso fisico e/o sessuale, l’abuso emotivo e il neglect, la violenza assistita e la separazione precoce, l’abbandono o il deterioramento della relazione primaria (a causa di malattie, droghe o detenzione) del caregiver.
Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/2018/04/disturbo-trauma-cumulativo/.

Il risultato è pressoché il medesimo del trauma quale evento singolo, ma le sue conseguenze sono “invisibili” (il trauma fisico e psicologico sono quelli più riconoscibili, perché provocano danni evidenti e permanenti), anche se spesso questo trauma diventa “cronico”, anzi la personalità del soggetto si struttura su di esso. (personalità post-traumatica).
Si parla quindi di TRAUMA COMPLESSO, che spesso associamo al concetto di TRAUMA RELAZIONALE.

IL TRAUMA RELAZIONALE si sviluppa nell’ambito della relazione con figure di attaccamento fondamentali; è definito come una minaccia grave relativa all’universo relazionale del soggetto, per esempio essere presenti ad un evento che comporta morte, lesioni grave ad altra persona con cui si è in stretta relazione (morte violenta o inaspettata di un familiare).
Bowlby ha dato l’avvio all’approfondimento delle dinamiche e delle caratteristiche proprie del sistema di attaccamento, sistema motivazionale e comportamentale innato che predispone il bambino a stabilire, mediante sistemi di segnalazione e di avvicinamento, un legame preferenziale con la figura che se ne prende cura.
Un’esperienza di separazione precoce dal caregiver predisporrebbe allo sviluppo di disturbi della personalità, senza tuttavia determinarli ineluttabilmente, ma «secondo un processo simile a quello implicato in una febbre reumatica, in cui i tessuti subiscono alterazioni che più avanti nella vita provocheranno disfunzioni più o meno gravi». (Bowlby, 1980).
In tal senso esperienze di separazioni precoci e attaccamenti insicuri predispongono il soggetto ai disturbi ansiosi e alla carenza di risorse in risposta ad un futuro evento traumatico che sia vagamente reminescente il trauma originario.
Un attaccamento insicuro quindi è un fattore di rischio per l’insorgenza delle nevrosi traumatiche, ma il trauma quale evento improvviso e dirompente ha la capacità di intaccare anche l’attaccamento sano e le normali funzioni dell’Io, che pertanto necessitano di essere ricostruiti.
Analogamente, Winnicott (1965) ha osservato come il trauma si organizza anche per una inadeguata risposta dell’oggetto ad una condizione mutilante dell’Io.
In tal modo viene mantenuto un nucleo primitivo di “Hilflosigkeit”, mancanza di aiuto, che si riattiva nel corso della vita. Gli “impingments”, urti del bambino per un’alterata funzione di contenimento della madre-ambiente (holding), si traducono in alterazioni della struttura dell’Io. Balint (1969) definisce la situazione traumatica all’interno della relazione e precisa che perché ci sia un trauma è indispensabile la presenza di almeno due persone, una nel mondo interno e una nel mondo esterno.
La mente umana per affrontare il trauma dispone del meccanismo della dissociazione, che Putnam ha chiamato “la fuga quando non c’è via di fuga “ (1992, Putnam – pag. 104).
Questo meccanismo nel negare ipnoticamente l’accesso alla consapevolezza preserva la sopravvivenza, allontanandoci dalla realtà quando essa diventa particolarmente insostenibile e dolorosa.

Il concetto di “disturbo di personalità” potrebbe essere definito più vantaggiosamente come l’esito caratterologico di un uso eccessivo della dissociazione, e questo indipendentemente dal tipo di disturbo (narcisistico, schizoide, borderline, paranoide ecc); esso costituisce una struttura di personalità organizzata come una risposta proattiva e difensiva alla potenziale ripetizione del trauma infantile. (2007, Bromberg).

La ripetuta esposizione all’angoscia traumatica che minaccia di distruggere la personalità umana, preclude lo spazio transizionale, distruggendo l’attività simbolica e l’immaginazione creativa e la sostituisce con quello che Winnicott chiama “fantasticare”
(1971, Winnicott – pag. 165-174).
La fantasticheria è uno stato dissociato, che usa l’immaginazione come difesa per evitare l’angoscia.
Un trauma intenso può causare una sofferenza e un’angoscia psichica intollerabile. I terribili vissuti traumatici spesso non possono essere ricordati dall’individuo, né trasformati in esperienze integrali, per cui nelle fasi successive dell’esistenza non possono che essere coattivamente ripetuti.
Nel trauma gioca un ruolo essenziale, non solo il sentimento soverchiante implicato dall’esperienza traumatica, ma anche la necessità di impedire la consapevolezza dei significati legati a ciò che è stato vissuto.

È da qui che ha origine la “dissonanza cognitiva” e uno dei pionieri nello studio degli effetti della dissociazione traumatica sulla personalità è stato Sandor Ferenczi; il bambino abusato (traumatizzato) deve gestire due realtà scisse e altamente controverse: da una parte la consapevolezza che quella persona abusa di lui e che si manifesta come spaventosa e ambigua, dall’altro che la stessa persona è probabilmente quella che se ne prende cura e da cui dipende. La parte buona e cattiva della persona con cui si relaziona (ambiguità e ambivalenza comportamentale e/o caratteriale) sono effettivamente scisse, incompatibili pertanto il bambino non riesce ad integrarle.
Concludo allegando la parte di un articolo di un collega (vedi link allegato) che spiega bene il concetto da me espresso sul collegamento trauma relazionale dissociazione e dissonanza cognitiva:
“Il bambino vede nell’abusante, contemporaneamente, qualcosa di terrificante e qualcuno di cui ha disperato bisogno.
Ed è per questo che non sente di potere intaccare la relazione.
Egli è obbligato a proteggere dentro di sé l’immagine di quel genitore cattivo, perché ha solo quello, non può “scegliersene un altro”, e da lui dipende la propria sopravvivenza. Se poi gli altri familiari si comportano come se non stesse succedendo niente (se per esempio l’abuso viene negato dall’altro genitore e dai familiari), la situazione si complica.
Il bambino è costretto, ai fini di preservare le relazioni di cui ha bisogno per sopravvivere, ad attuare un atteggiamento del tipo “non sapere quello che si sa”, creando così un vincolo che schiaccia la mente e il pensiero riflessivo, che lo porta a dubitare di ciò che percepisce”.
Per questo le persone che hanno vissuto esperienze traumatiche continuano a utilizzare modalità dissociative e cioè ad affrontare la sofferenza non vedendo quello che c’è, annebbiando la consapevolezza, dimenticando gli eventi, ritenendo che tutto vada bene, nonostante la catastrofe: un po’ come nella vecchia storiella “Tutto va bene madam La Marchesa”.
Diversi autori hanno descritto queste dissociazioni in soggetti traumatizzati in termini di stati multipli del sé.
In questo contesto, si ammette l’esistenza di un’identità nucleare, che risulta però in continua tensione con una molteplicità di Sé alternativi.

Questa prospettiva converge verso una visione del trattamento inteso come processo che facilita la riparazione e l’integrazione di aspetti dell’esperienza di sé, precedentemente frammentati o distaccati, che spesso fanno sentire la loro presenza in interazioni e il cui significato non è esplicito o viene negato. Philip Bromberg ha spiegato questa strategia terapeutica come un “restare negli spazi” tra i sé dissociati.
(https://campisipsicologo.com/disturbi/trattamento-del-trauma-relazionale)

Dottoressa Silvia Michelini