“Restiamo insieme per i nostri figli”: è sempre una scelta giusta?
Quando si parla di separazione è sempre difficile esprimere un
parere che non sconvolga la morale comune e che metta tutti
d’accordo.
Una necessaria premessa: la nostra cultura è influenzata dai
concetti base del pensiero cristiano, sia che ci si faccia parte dei
cattolici, sia che non.
Siamo tutti cresciuti in un paese cattolico.
Secondo la morale comune, chi ama davvero si sacrifica, lotta e
soprattutto cerca di aiutare chi ama fino allo sfinimento. Chi mette
da parte sé stesso per gli altri è un eroe e chi si priva della gioia o
dei piaceri umani o carnali è più meritevole di stima di altri.
Nella nostra società inoltre – vige ancora oggi una rigida stereotipia
dei ruoli di genere: nei modelli idealizzati di relazione che abbiamo
interiorizzato, la donna è colei che ama, accudisce e si identifica
con queste qualità dissociandosi da ogni forma di individualismo,
libera sessualità e aggressività, l’uomo è quello che fatica per il
futuro dei figli, che deve affermarsi nel lavoro, manifestare potenza
sia in quell’ambito che in ambito sessuale.
Questa estrema dicotomia sessista tra l’energia maschile e
femminile è un potente limite all’autorealizzazione individuale sia
degli uomini che delle donne.
La stereotipia di genere cioè, lede sia uomini che donne e in alcuni
punti si interseca: uno di questi è il sacrificarsi “per il bene della
famiglia”.
Il masochismo affettivo o la rinuncia alla propria auto-realizzazione
viene considerata una forma di elevazione morale: “la vita è
sofferenza” …etc.
Sembra quasi che qualcosa non abbia valore se non abbiamo
sofferto per ottenerlo.
In 12 anni di clinica ho assistito a separazioni dolorosissime e altre
estremamente salvifiche per tutti ed ho capito che ciò che fa male ai
figli (oltre all’isolamento sociale attuale dovuto all’avvento della
tecnologia) non sono le separazioni in sé, ma il conflitto,
l’ambivalenza, l’infantilismo egoistico dei genitori e il non poter
contare o fidarsi delle figure affettive di riferimento.
Alcuni dicono “non ci sono più le donne/uomini di una volta”, “non ci
sono più le famiglie di una volta”!
Quali? Quelle in cui le mogli e le figlie venivano percosse e spesso
stuprate? O quelle in cui molti uomini hanno cresciuto figli non loro
lavorando dalle sei del mattino alla sera nascondendo la loro
omosessualità o dovendo avere amanti segrete dopo matrimoni
combinati?
Questo forse non è stato possibile neanche quando ci si sposava a
vent’anni e si stava insieme con la stessa persona tutta la vita
sopportandola a malapena o triangolando i figli in conflitti. Che
adulto può essere qualcuno che a vent’anni magari, è costretto a
sposarsi o che fa una famiglia perché così si fa, senza che si sia
mai chiesto chi è, cosa desidera etc.?
Fino agli anni 70 la famiglia si basava sulla soppressione
dell’individualismo in funzione del bene comune e di un “futuro
migliore”, per questo i figli venivano spesso lasciati in collegi o con
zii e nonni in situazioni comunitarie spesso promiscue o nelle quali
si faceva difficoltà a “stare dietro a tutti”.
Le proteste degli anni 70 avevano già messo in evidenza “un
modello patriarcale che stava stretto a molti” (soprattutto alle
donne) e che era destinato a fallire.
Dagli anni 80 con l’avvento del positivismo americano e del
benessere economico, l’individualismo come risposta oppositiva a
quella repressione ha condotto al delirio narcisistico odierno che
vede al contrario rifiutare il sacrificio in ogni sua forma in favore di una perenne adolescenza e della ricerca di una felicità a tutti i
costi… spesso ostentata e spesso finta.
La sofferenza insomma o la si inneggia o si cerca di evitarla… in
entrambe i casi, siamo su due estremi difficili da gestire.
Dove sta la verità? Io credo nel mezzo….
Quello che determina una scelta saggia e una personalità che
possiamo definire “matura” è certamente la capacità di assumersi
delle responsabilità, di affrontare i sensi di colpa, di riconoscere i
limiti propri e altrui e mettere dei confini ove necessario.
Una casa tutta blindata senza finestre non fa passare né la luce, né
le persone, una casa senza porte e finestre fa passare tutti.
Repressione e permissivismo sono quindi due lati della stessa
medaglia.
Già negli anni settanta i ricercatori avevano scoperto che ogni figlio
risponde in modo soggettivo alla separazione, che è certamente un
evento doloroso, altamente stressante, un grande cambiamento
che implica un riadattamento della sua vita, ma tutto dipende da
come emotivamente il bambino affronta questo evento e quindi
come i genitori affrontano sia il loro lutto che le conseguenze sui
figli.
A livello sistemico, la coppia è solo un aspetto della famiglia, non la
sua totalità; molte coppie fanno fatica a vedere una continuità della
genitorialità e della famiglia dopo la separazione, facendo aderire
l’intero progetto familiare alla coppia.
Le conseguenze sui figli quindi dipendono da COME si separa la
coppia, non dalla separazione in sé, le ricerche condotte fino ad
oggi hanno dimostrato che la separazione non determina
necessariamente l’insorgere di traumi psicologici nel lungo termine.
Infatti, l’incidenza di disturbi importanti e persistenti nei figli di
genitori separati risulta fortunatamente bassa: ricerche dimostrano
che tra il 70 e l’80% dei bambini con genitori separati non manifesta
effettivi problemi durevoli (Hetherington,1992; Amato, 2000).
E’ il conflitto e la trascuratezza genitoriale a mettere i figli a rischio
di incorrere in problematiche psicologiche future e ciò puo’ avvenire
anche se i gemiyori restano insieme “per il bene dei figli”.
Dietro a questa motivazione ci sono spesso motivazioni
individualistiche, come la paura di deludere i genitori (ragionando
ancora da figli), di affrontare un fallimento, di perdere diritti sui figli
Tutto dipende d tre fattori: comunicazione, gestione,
mantenimento della co-genitorialità condivisa.
Facciamoci qualche domanda
- Come comunichiamo che ci separeremo?
- Siamo in grado di non dare la colpa totale della decisione
all’altro partner, cercando nei figli supporto emotivo e
cercando di “portarli dalla nostra parte”? - Siamo in grado di non drammatizzare eccessivamente?
- Siamo in grado di dare loro continuità, di far sì che l’evento
non impatti molto sulla loro quotidianità? - Siamo in grado di fare un lavoro su noi stessi, prima di
appoggiarci nuovamente a un nuovo partner?1) Siamo in grado di proteggere i figli evitando di coinvolgerli in
baruffe o dinamiche conflittuali durante la fase di separazione?
2) Siamo in grado di comunicare con loro, di dar loro supporto
emotivo e di aiutarli a non sentirsi responsabili o in colpa per la
fine di questo legame?
Tutte queste dinamiche disfunzionali sono presenti anche nei
matrimoni infelici, tenuti in piedi solo dalla paura dei due genitori di
separarsi o dal loro non volerlo fare per non liberare l’altro.
I figli assistono per anni al triste teatro di due attori in competizione
tra loro tra chi è il più meritevole o chi ha più colpe, chi ha dato o
sofferto di più…
I figli cioè subiscono lo stress diretto o diretto del conflitto tra i due
partner o ex partner.
Riguardo al “mi separo quando i figli saranno più grandi” le ricerche
affermano che prima lo si fa (qualora il matrimonio non funzioni) e
meglio è.
Se i bambini sono piccoli al momento della separazione, l’entità
delle conseguenze è minore rispetto a coloro che sperimentano la
separazione ed il divorzio da più grandi (Rogers, 2004).
Come fare quindi a separarsi bene e a lavorare sul conflitto?
Bisogna innanzitutto volerlo, chiedersi se abbiamo lavorato sui
nostri schemi di relazione disfunzionali o sui nostri traumi infantili,
se l’altro vuole farlo e correre ai ripari qualora sia una personalità
rigida o non senta di voler crescere o mettersi in discussione.
Bisogna poi affidarsi a bravi avvocati che non colludano con le
paure paranoidi degli ex-partner per scopi economici o per transfert
personali incoraggiandoli a “farsi la guerra”, perché sono proprio gli
atteggiamenti eccessivamente aggressivi, difensivi tra i due partner
a generare poi le dinamiche disfunzionali a livello sistemico e nel
bambino.
Nel caso in cui si faccia difficoltà a gestore questa fase, ci si può
affidare alla mediazione familiare. Io consiglio sempre si tratti di uno
psicologo esperto, perché la sola mediazione non riesce a lavorare
sui conflitti accesi e non si possono sempre riconoscere aspetti
disfunzionali profondi indirizzando la coppia o i singoli verso la
giusta direzione.
La separazione è un evento molto stressante e quindi a mio parere
serve sia una terapia individuale di sostegno, che un supporto
familiare (mediazione di coppia o familiare).
Questi interventi invece tendono spesso a fallire perché per fare
una mediazione familiare occorre volerlo in due, gli ex partner cioè
non devono trasformare gli incontri in tribunali e gli operatori in
giudici. Ciò accade anche in terapia di coppia.
Bisogna anche affidarsi a uno psicologo esperto sulle personalità
conflittuali, qualora uno dei due genitori non voglia collaborare e
quindi improntare un lavoro più soggettivo per evitare che questa
variabile possa influire troppo negativamente sui figli.
Ove possibile sarebbe opportuno non coinvolgere i figli nelle terapie
a meno che non lo chiedano (abbiamo quindi l’età per farlo in modo
diretto) o ne manifestino l’esigenza indiretta e lavorare sulle proprie
capacità genitoriali per dar loro beneficio i e alleviare il loro stress.
Più si lavora sul conflitto (nei casi in cui chiaramente sia possibile) e
meno ci sarà il rischio che questo vi conduca in una spirale legale
complessa e che vi costringa (anche inutilmente a volte) a
confrontarvi in tribunale, che troppo spesso diventa solo un teatro
degli orrori per i vostri figli.
Riflettiamo che sulla motivazione che ci spinge ad aver paura di
separarsi… quanto realmente lo state facendo per i figli e quanto
invece per le vostre paure e per un vostro egoismo basato sulla
collusione di coppia?
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- Il legame disperante. Il divorzio come dramma di genitori e figli di Vittorio Cigoli (Autore) Carlo Galimberti e Marina MombelliDottoressa Silvia Michelini